Se la Cina censura anche il presidente Usa…
…significa che gli Usa sono davvero in declino. O almeno che, al di là delle parole di circostanza spese dai politici nei meeting, il peso americano in Asia si va riducendo vistosamente.
Ma prima di spiegare il titolo di questo post, dovuto alla censura di cui è stato vittima Barack Obama a Pechino (come potrete leggere più sotto) va detto che il presidente americano purtroppo ha ottenuto molto poco, dal suo giro asiatico. E ancora meno dalla Cina, dove non è riuscito ad avvicinare Pechino alle posizioni di Washington su nessuna questione: né sulla atomica iraniana, né sulla guerra al terrorismo in Afghanistan e Pakistan, né sui problemi dell’effetto-serra e nemmeno sulla necessità di rivalutare la moneta cinese, il renminbi.
Inoltre, essersi sbilanciato in affermazione del tipo «una Cina prospera e potente è un vantaggio per tutti» non gli ha giovato, e certo sollecita in molti di noi una domanda: quale vantaggio per i tibetani, per gli uiguri, per i dissidenti cinesi in carcere, etc? (E a proposito del drammatico stallo della questione tibetana, e delle troppe illusioni dell’Occidente sul dialogo con la Cina, invito tutti a leggere il lucido intervento di Piero Verni sul suo blog Free Tibet, che polemizza con un articolo di Francesco Pullia pubblicato su Notizie Radicali, il giornale telematico di Radicali Italiani).
Per capire quale sia il peso non solo di Barack Obama ma dell’intero Occidente, di fronte all’ Impero di Mezzo (come la Cina si è sempre considerata, a prescindere dai regimi che l’hanno governata nel corso del tempo) un piccolo fatto è più eloquente di molte parole. Ecco spiegato il titolo di questo post: il fatto è riportato da Informa, Rivista telematica di giornalismo e comunicazione. Riporto l’articolo per intero, perché ne vale la pena: «La Cina censura Obama. Il presidente americano, per la prima volta in visita nel Paese di Mao, è stato oscurato in tutta la nazione per le sue affermazioni sulla libertà di stampa e contro la censura. Il suo discorso, tenuto davanti a 520 selezionatissimi studenti, al museo delle scienze e della tecnologia di Shangai, non è stato mandato in onda né dalla televisione ufficiale di Pechino né dai siti web cinesi. L’unico ad essere riuscito a diffondere le parole di Obama è stato un blogger locale che, quasi in tempo reale, era riuscito a pubblicare il discorso sul suo sito. Ma in meno di mezz’ora, ventisette minuti per l’esattezza, le efficientissime autorità cinesi preposte al controllo della rete, hanno cancellato il post. “Io sono un grande sostenitore della non censura†sono state le parole di Obama che hanno fatto scattare la censura – per noi negli Stati Uniti il fatto di avere un Internet libero, senza limiti di accesso, è un punto di forza. Per questo penso che la fruizione libera di Internet sia una cosa da incoraggiareâ€.
E ancora: “Esistono diverse tradizioni, ma l’uso senza restrizioni di Internet rafforza il sistema: maggiore è il flusso di informazioni, più forte diventa la società â€. Insomma Obama non ha fatto sconti alle autorità cinesi. Anzi ha rincarato la dose: “la libertà di espressione e di partecipazione dovrebbero essere garantiti ad ognuno, anche alle minoranze etniche e religiose, tanto che vivano negli Stati Uniti, in Cina o altroveâ€, e poi ha concluso dicendo che gli Stati Uniti “non cercano di imporre questi valori, però crediamo che non siano valori di un solo Paese ma valori universaliâ€.
E mentre Obama veniva censurato in Cina, da Sharm El Sheikh, dove è in corso il quarto forum sull’Internet governance, arrivavano notizie positive per una rete sempre più libera e neutrale. L’amministrazione americana ha liberato dalla tutela statunitense l’Icann, (Internet Corporation for Assigned Names and Numbers), ovvero l’ente non profit che assegna gli indirizzi IP, gestisce il sistema dei nomi a dominio generici di primo livello e svolge altre importanti funzioni. “Sulla base di questo passaggio storico – ha commentato il senatore del Pd Vincenzo Vita, presente al forum – di trasformazione dell’Icann si può procedere alla creazione di un organismo internazionale, dove, accanto alle istituzioni ufficiali, ci siano la società civile, i soggetti interessati e le Ongâ€.â€Certo – ha concluso Vita – siamo in attesa di risposta dal governo cinese, che tiene sotto stretto controllo, con la censura e la repressione del dissenso, i suoi trecento milioni e passa di utentiâ€Â».
Nello stesso numero della rivista on line Informa era contenuto anche l’articolo «Cina, altre due condanne per il Tibet» che riporto qui di seguito: «A causa di contenuti pubblicati online, Kunga Tseyang e Kunchok Tsephel sono stati condannati rispettivamente a 5 e 15 anni di prigione da una corte cinese. Kunga Tseyang, ventenne tibetano e studioso buddista, scrittore e fotografo, attivista in difesa dell’ambiente, si è reso colpevole di avere pubblicato in rete degli articoli in cui si auspicava la separazione dalla Cina. Kunchok Tsephel, invece, si è “meritato†la sentenza di 15 anni per degli articoli pubblicati dal sito web Chodme (tibetcm.com) di cui è direttore. “È questa la risposta preventiva del governo cinese alla chiara ed esplicita difesa del presidente statunitense della libera circolazione delle informazioni? – si chiede Reporters sans frontières, che denuncia sulle proprie pagine online la situazione in Tibet – In ogni caso, speriamo che il governo centrale ribalti tali pesanti condanne a danno di due scrittori tibetani colpevoli solo di avere espresso il proprio punto di vista. Deploriamo la repressione divenuta crescente a partire dalle proteste in Tibet di marzo scorsoâ€Â».

Caro Marco, ti ringrazio vivamente di questo nuovo post su Obama. E approfitto per farti i complimenti per questo tuo blog che assomiglia ormai ad una sorta di periodico telematico sull’Oriente.
Volevo solo aggiungere che molti degli studenti che hanno partecipato all’incontro con Obama erano membri del Partito Comunista appositamente “cammellati” per l’occasione.
Inoltre vorrei aggiungere alla lista di quanti forse non sono troppo contenti di una Cina “forte e prospera”, l’India che proprio in questi ultimi mesi è stata fatta oggetto di minacce di vario genere da parte di Pechino. Un esempio delle quali è un recente articolo apparso sul “Quotidiano del Popolo” in cui con tono truculento si ricordava all’India la “lezione” del 1962. Vale a dire quell’inaspettata aggressione militare di Pechino che, sia sul fronte occidentale sia su quello orientale, inflisse pesanti perdite all’esercito indiano e umiliò drammaticamente il governo di Nuova Delhi.
Credo, al contrario di Obama, che interesse del mondo non sia “questa” Cina “forte e prospera” bensì una “nuova” Cina nata dalla caduta di quello che nei giorni scorsi il dissidente cinese Wei Jinseng ha, con una felice immagine, chiamato il Muro di Pechino.
[…] completo fonte: Se la Cina censura anche il presidente Usa… Articoli correlati: La Cina oscura Youtube. Un altro caso di censura, ma le autorità […]
Un satyagraha di massa per il Tibet
di Francesco Pullia
Può il Tibet stare nella Cina come il Sud Tirolo-Alto Adige nel nostro Stato? Il quesito, non privo di risvolti shakespeariani, si ripresenta ogniqualvolta capiti di ascoltare il Dalai Lama e la sua proposta di soluzione di una vicenda che si protrae ormai da quasi sessant’anni, da quando cioè le truppe della Cina comunista, in aperta violazione del diritto internazionale e, diciamolo pure, nel pieno disinteresse dei governi occidentali, invasero il Paese delle Nevi sotto la spinta della rivoluzione maoista.
Quella che fino ad allora era stata una terra depositaria di una cultura millenaria, dove a partire dall’VIII secolo, grazie al mistico Padmasambhava (Guru Rimpoche), il buddhismo cominciò a penetrare tra la gente e ad insediarsi a tal punto da caratterizzarne significativamente usi e costumi, si ritrovò di colpo ad essere teatro di una immane tragedia.
Dal 1950 il Tibet non è più l’idilliaca Shangri-la o Shambala, l’inaccessibile regno protetto dall’innevata catena himalayana che tanto a lungo ha alimentato la fantasia di scrittori, filosofi, scienziati, spiritualisti d’ogni risma, ma un territorio assoggettato al governo di Pechino, costretto a subire una colonizzazione selvaggia nonché un progressivo sradicamento delle proprie tradizioni culturali ed etniche. Dall’arrivo dei militari cinesi oltre un milione e duecentomila tibetani hanno perso la vita, il 90% dell’antichissimo e prezioso patrimonio artistico e architettonico è stato distrutto dalla furia delle guardie rosse, seimila templi sono stati letteralmente rasi al suolo, le ricchezze naturali sono state depredate stravolgendo l’intero ecosistema, per non parlare delle scorie nucleari scaricate dalla Cina. Un vero e proprio genocidio è in atto. I tibetani, ridotti ad essere, nella loro casa, appena sei milioni rispetto ai quasi nove di immigrati cinesi a causa anche di una criminale politica di sterilizzazioni e aborti forzati che impedisce alle donne di avere più di un figlio, non possono studiare e parlare la propria lingua, sventolare la propria bandiera, seguire la propria religione. In altri termini, a loro è negata quell’identità per la cui affermazione anche di recente si è scesi in piazza, pur sapendo di finire torturati in galere o campi di concentramento se non assassinati dalla polizia o da inesorabili sentenze capitali.
Qualche settimana fa ne sono stati “giustiziati†altri sei, di cui quattro giovanissimi, per fatti connessi ai disordini verificatisi lo scorso anno a Lhasa. Inutili le indignazioni espresse nel mondo. La Cina non sente ragioni e prosegue per la sua strada tenendo ben stretto il triste primato di più di cinquemila esecuzioni annue.
Nel 1959 Il Dalai Lama, seguito da circa centomila tibetani, fu costretto a fuggire e chiedere asilo politico in India costituendo a Dharamsala, nella regione dell’Himachal Pradesh, un governo tibetano in esilio fondato su principi democratici. Attualmente il numero dei rifugiati supera le 135.000 unità ma l’afflusso dei profughi che lasciano il paese per sfuggire alle persecuzioni cinesi non conosce sosta. Molti, costretti ad affrontare senza mezzi adeguati incredibili viaggi tra il gelo e le tormente, ad altitudini elevatissime, non ce la fanno e pagano con la morte un legittimo anelito di libertà . Chi riesce a valicare la frontiera indiana racconta di privazioni, stenti, violenze inaudite, come l’ormai anziano Palden Gyatso, monaco più volte arrestato e sottoposto a sevizie terribili, al supplizio della fame, costretto ad assistere ad intollerabili sedute in cui, specialmente durante la Rivoluzione Culturale, i prigionieri erano obbligati a denunciarsi l’un l’altro e a confessare crimini mai commessi.
Quando riferisce le testimonianze degli scampati il Dalai Lama trasforma la sua contagiosa risata gutturale in una voce rotta dalla commozione. Da quando è fuori dal suo paese, tentando strenuamente di salvare il salvabile, attraversa instancabilmente in lungo e in largo i continenti per farne conoscere le condizioni e perorare la sua via di mezzo. E così, in questi giorni, è tornato in Italia per partecipare al V Congresso mondiale dei parlamentari per il Tibet promosso dall’Intergruppo alla Camera guidato dall’attivissimo deputato radicale Matteo Mecacci. Ascoltato con grande attenzione e partecipazione dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, ma evitato accuratamente, come d’altronde è purtroppo già accaduto anche con altri esecutivi, dal presidente del Consiglio e da altri membri del governo, Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama del Tibet nonché premio Nobel per la pace nel 1989, ha confermato la sua ferma convinzione nella nonviolenza come unica e inderogabile risorsa politica (“Da decenni siamo impegnati nella nonviolenza e rimarremo nonviolenti, non sosteneteci qualora si derogasse da questa lineaâ€) e rivendicato nuovamente autonomia e non indipendenza per il Paese delle Nevi, mostrandosi, tra l’altro, entusiasta della visita a Trento e Bolzano: “Le autorità di Pechino – ha affermato – hanno paura e usano la forza per reprimere il Tibet. Temono che l’autonomia sia usata come strumento per arrivare alla separazione, cioè all’indipendenza. Ma questo non è vero. A Trento e Bolzano ho potuto constatare un alto grado di autonomia all’interno, però, dell’unità italiana. Se venisse adottata questa soluzione anche per il Tibet si produrrebbero benefici per tutti, tibetani e cinesi. Il mondo deve aiutarci a lanciare un segnale molto forteâ€. Ed ha aggiunto, con un po’ di amarezza: “Sono ormai anziano. Non so quanto mi resti da vivere, altri dieci o al massimo vent’anni. Non ho nulla da chiedere al governo cinese che mi riguardi personalmente, sono solo un umile monaco e posso continuare a rimanere fuori dal mio paese. Ciò che, invece, mi preoccupa è la sorte di sei milioni di tibetani. Se, con la loro nonviolenza, fallissero, ad essere sconfitto sarebbe il mondo intero. Facciamo tesoro dei disastri commessi nel secolo scorso, dei 200 milioni di morti, per impegnarci a tramutare il XXI secolo nel secolo della nonviolenzaâ€.
Il 21 settembre 1987, davanti alla Commissione per i Diritti Umani del Congresso degli Stati Uniti d’America, il Dalai Lama presentò un Piano di Pace in Cinque Punti, la cosiddetta via di mezzo, quale realistica proposta sulla cui base intavolare trattative con il governo della Repubblica Popolare Cinese. Si prevedeva in particolare:
1. la trasformazione dell’intero Tibet in una zona di Ahimsa, un territorio demilitarizzato di pace e nonviolenza;
2. l’abbandono della politica di trasferimento della popolazione da parte della Repubblica Popolare Cinese;
3. il rispetto dei diritti umani fondamentali e delle libertà democratiche;
4. il ripristino e la protezione dell’ambiente naturale;
5. l’avvio di serie trattative sul futuro status del Tibet e su rapporti tra il popolo cinese e quello tibetano.
L’anno seguente, il 15 giugno 1988, nella sede di Strasburgo del Parlamento Europeo, il Dalai Lama, deciso a trovare un accordo con i cinesi dopo l’ennesimo massacro avvenuto a Lhasa la primavera di quell’anno, rielaborò di fatto il quinto punto del suo Piano di Pace: “L’intero territorio del Tibet conosciuto come Cholks-Sun (comprendente U-Tsang, Kham e Amdo) dovrebbe divenire un’entità politica democratica autogovernantesi, basata sul diritto in virtù del consenso del popolo, per il bene comune e la protezione di se stesso e del suo ambiente, in associazione con la Repubblica Popolare Cinese. Il governo della Repubblica Popolare – sostenne allora – dovrebbe rimanere responsabile della politica estera tibetana. Il governo del Tibet potrebbe tuttavia stabilire e mantenere relazioni internazionali per quanto concerne la religione, il commercio, l’educazione, la cultura, il turismo, la scienza, lo sport e altre attività non politiche, attraverso un suo Ufficio per gli Affari Esteriâ€.
In sostanza alla richiesta dell’indipendenza si sostituì la rivendicazione del riconoscimento dell’autonomia sociale, politica, religiosa e culturale.
Dopo il conferimento del premio Nobel per la pace, nel 1989, sono state approvate in tutto il mondo e anche in Italia numerose risoluzioni parlamentari in cui si condanna la violazione dei diritti umani in Tibet e si chiede alla Cina di dare avvio a concreti negoziati per una soluzione pacifica del problema sulla base della proposta del leader tibetano.
Il vero problema sta, però, nel fatto che la Cina continui a mostrarsi completamente sorda e cinicamente indifferente. Finora non solo tutti i tentativi di dialogo sono andati a monte ma tanto più il Dalai Lama ha perseverato nella sua posizione autonomistica, tanto più da Pechino da un lato si è risposto con minacce e ingiurie, dipingendolo come un criminale separatista, dall’altro si è intensificata la morsa repressiva, attuando una gestione del potere sanguinaria.
Che fare, dunque?
“E’ una vera perdita di tempoâ€, afferma il giornalista e saggista Piero Verni, uno che di Tibet se ne intende, autore tra l’altro di una biografia autorizzata dal Dalai Lama, “sperare oggi in un vero dialogo con Pechino. L’unica cosa sensata da fare è appoggiare concretamente, e in tutti i modi possibili, quanti all’interno e all’esterno del territorio della Repubblica Popolare Cinese lottano per un autentico cambiamento. O quanto meno per creare solide basi affinché un tale cambiamento
possa avvenire in tempi non biblici. La storia pluridecennale del comunismo cinese è davanti agli occhi di quanti vogliano vedere (e non solo guardare) i fatti reali. E dimostra che, dal punto di vista delle libertà civili, il regime non è riformabile. Il Dalai Lama più che perdere tempo ed energie a ricercare un dialogo con Pechino, farebbe meglio ad impugnare simbolicamente il piccone della resistenza nonviolenta per iniziare a far cadere qualche mattone del Muro di Pechino. E’ quello che fece Gandhi in India. Perché sarebbe bene ricordare che per il Mahatma, il rigore sui metodi nonviolenti poteva poggiare unicamente sul rigore dei fini. E il fine unico di Gandhi, riguardo al quale non ebbe mai tentennamenti né scese mai a compromessi, era il “Purna Swarajâ€, vale a dire la “completa indipendenza†dell’India.â€
A queste considerazioni, diversi ne contrappongono altre, facendo notare, come se già è impossibile parlare con i cinesi di autonomia, andrebbe peggio con l’indipendenza. La vera via di mezzo probabilmente sta nell’accompagnare la richiesta autonomistica espressa dal Dalai Lama con un inflessibile satyagraha di massa alla stessa stregua dell’azione gandhiana nell’India dominata dagli inglesi.
E’ vero, infatti, i cinesi non sono gli inglesi e hanno una storia giuridica del tutto differente. Tuttavia, se l’occidente, anziché tacere o timidamente accennare ai diritti civili per poi dimenticarsene al momento di concludere vertiginosi affari con il Dragone cinese, comprendesse che la questione tibetana non è confinata sul tetto del mondo ma lo riguarda e coinvolge più di quanto possa immaginare, allora le cose prenderebbero sicuramente una piega diversa. Ci si riuscirà a farlo capire? “Il mondo deve aiutarci a lanciare un segnale molto forteâ€. Yes, we can.
Caro Francesco,
la vera, anzi unica via, (non so se di “Mezzo” o meno) consiste nel comprendere una buona volta che questo regime cinese (a proposito hai visto come ha trattato il buon Obama, nonostante l’inutile disponibilità del presidente americano?) non ha concesso, non concede e non concederà nulla a nessuno. E’ autoritario, protervo, aggressivo e animato da una vera e propria “volontà di potenza”. In altre parole chiuso e sordo. Però non rappresenta l’intero popolo cinese anzi. Quindi i tibetani, a cominciare dal Dalai Lama, dovrebbero dare il loro contributo alla lotta per rovesciare quel regime, lotta che già in diversi stanno portando avanti in Cina. E sono molti di più di quanti non si creda. Senza, assolutamente senza, rinunciare alla idea forza dell’indipendenza.
Per il momento. Pronti poi, di fronte a un diverso regime e governo cinese, a discuterne. Ma discuterne con quanti, sia pure obtorto collo, saranno disponibili a discutere. Il dialogo, per essere tale, ha bisogno di due interlocutori. Si deve essere in due (o più) esattamente come per fare l’amore. E proprio come per l’amore, fatto da solo è una masturbazione. Non dovrebbe essere un concetto così difficile da comprendere.
I tibetani e molti dei loro sostenitori italiani parlano tanto dell’autonomia del Sud Tirolo. Ma è proprio questo l’esempio che prova la bontà della mia tesi. Il dialogo tra le popolazioni di lingua tedesca dei territori austriaci occupati dall’Italia dopo la prima guerra mondiale e il governo italiano è potuto cominciare solo dopo la caduta del regime fascista. Avevano voglia i sudtirolesi a chiedere il dialogo a Mussolini! Solo con l’Italia democratica post-liberazione è stato possibile, pur tra mille difficoltà e molti fatti di sangue (dimenticati gli scontri armati, le notti di fuoco, le esplosioni dei tralicci della Val Passiria, i carabinieri uccisi?), avviare un dialogo. E solo nel 1972 si è potuti arrivare allo statuto di Autonomia della Provincia Autonoma di Bolzano. Ora se i sud tirolesi hanno dovuto faticare così tante per ottenere l’autonomia dai governi democristiani dello stato italiano (governi che non mi pare siano ricordati per la loro marmorea durezza e tetragonicità ) come si può pensare che “questo” regime cinese
(che ha appena eseguito oltre dieci esecuzioni capitali -tre tibetani e nove uiguri- ed ha condannato per reati d’opinione due intellettuali tibetani a 5 e quindici anni di carcere, tanto per citare i primi esempi che mi vengono in mente) possa concedere la “genuina autonomia” di cui parla il Dalai Lama. E non voglio sollevare il problema della democrazia. Sarebbe compresa nell’autonomia? Pechino dovrebbe consentire una enclave democratica sul Tetto del Mondo e la dittatura del proletariato nel resto della Cina?
Ma andiamo! Che il governo tibetano in esilio comprenda finalmente che l’unica via è quella della caduta del Muro di Pechino. E dia una mano. Poi, all’interno dei nuovi orizzonti che potranno aprirsi, veda di iniziare un dialogo vero con quanti vorranno dialogare.
Il resto mi sembrano solo astratti esercizi retorici di cui il popolo tibetano non credo abbia alcun bisogno.
Con la simpatia di cui sai,
Piero
[…] spesso, come il noto storico ed economista Michelguglielmo Torri o gli amici Alessandro Gilioli e Marco Restelli. Non parlo di quello che vedo io. Parlo di chi va lì con gli occhi ben aperti e, forse, non […]
Mi permetto, invitato da Marco Restelli, di aggiungermi al dibattito. Casualità ha voluto che, senza essere al corrente di questo post, avessi autonomamente scritto sul mio blog due differenti articoli che trattavano dei due temi di cui sopra: obama e tibet.
Su Obama, rimando direttamente al mio blog
http://majunteo.wordpress.com/2009/11/17/obama-liberta-cina/
mentre per la questione tibetana, vi segnalo un mio articolo ripreso da rivistaonline.com. La sostanza è identica all’originale presente sul blog, solo le parte in inglese sono state tradotte.
http://www.rivistaonline.com/Rivista/ArticoliPrimoPiano.aspx?id=6120
Vi prego di prendere in considerazione i miei articoli, poi potremo iniziare a discuterne se vorrete.
Con stima,
Matteo Miavaldi
Caro Miavaldi,
leggo sul suo bel blog (ma come fate ad avere tempo per curarli così bene graficamente Restelli e lei? Nel mio -www.freetibet.eu- è già tanto se riesco a trovare il tempo per inserire i testi!) gli interventi su Obama e sul Tibet relativamente alla conferenza dei parlamentari internazionali recentemente svoltasi a Roma.
Per quanto riguarda l’incontro di Obama con gli studenti cinesi mi sembra che sia ormai chiaro quanto fosse artefatto e le presenze filtrate dalla censura di Partito. Spero di sbagliarmi ma credo che non abbia significato proprio nulla per i giovani cinesi. Per altro, guarda caso, l’unico taiwanese presente ha parlato contro gli aiuti alla difesa di Taiwan. Per quanto conosco la questione, e un pochino mi picco di conoscerla, è l’unico taiwanese ad essere contrario alla vendita di armi alla sua nazione. Questo infatti è uno dei pochissimi punti su cui sia il Kuomintang (l’attuale partito di governo) sia il DPP (partito attualmente all’opposizione ma che ha appena ridotto enormemente il divario con il Kuomingtang nelle recentissime elezioni: 47% il KMT, 45% il DPP) sono concordi. Vale a dire entrambi ritengono indispensabile un esercito in grado di difendersi da una possibile (e per molti probabile, vedi il recente libro dello storico cinese Yuan Hongbing, che prevede una invasione di Taiwan entro il 2012 e che è stato da poco presentato proprio a Taipei).
Per quanto riguarda invece i suoi rilievi sulla assoluta inutilità di incontri come quello di Roma sono d’accordo con lei. Mi permetterei però di sottolineare che la Medaglia d’oro del Congresso, il Dalai Lama mi pare l’abbia ricevuta dalle mani di Nancy Pelosi (l’odiato Bush era solo presente e penso nemmeno tanto felice di esserlo). E discorsi di benvenuto e cittadinanze onorarie il Dalai Lama ne ha ricevuti non solo dall’odiato Alemanno ma anche da Cacciari e da tanti sindaci a capo di amministrazioni di centro-sinistra. Tutti, in perfetto regime di par condicio, tanto enfatici quanto ben presto dimenticati.
Come ho scritto più volte, il problema del Tibet potrà essere risolto, o meglio, i tibetani potranno iniziare a cercare di risolverlo, solo in una Cina diversa dalla presente e in grado di esprimere una dirigenza capace quantomeno di iniziare un dialogo. Sarà senza dubbio un dialogo lungo, complesso, difficile, aspro ma sarà un dialogo vero. Quello in atto dal 2002, che il Dalai Lama e il suo governo in esilio continuano un po’ pateticamente a definire “dialogo”, è solo una presa per i fondelli. Un contentino a quei governi che si ostinano a far finta di sollevare il problema del Tibet nei colloqui con Pechino.
Come vado dicendo da diversi anni, l’attuale regime cinese non vuole, dal punto di vista politico, dialogare con nessuno. Né con i tibetani, né con gli uiguri, né con quei settori della propria popolazione che chiedono l’apertura di qualche spazio di libertà . Questa rimane -e deve rimanere- esclusivo appannaggio della sfera economica. Del simpaticissimo “socialismo di mercato”.
Si veda, tanto per fare qualche esempio, la recente pioggia di esecuzioni capitali comminate a tibetani ed uiguri, la condanna a 5 e 15 anni di due blogger tibetani e innumerevoli altri casi analoghi che evito di fare per non rubare troppo spazio.
Con cordialità ,
Piero Verni
Signor Verni,
sono completamente d’accordo con Lei. La condizione fondamentale per un dialogo vero tra cinesi e tibetani che, come ho provato a sottolineare nel mio articolo, va molto oltre la sacrosanta questione della protezione culturale e delle tradizioni tibetane (si parlerebbe in realtà soprattutto di affari, materie prime, diritti di sfruttamento del territorio ed indipendenza commerciale), è una dirigenza più “democratica”.
Bisogna considerare che la Cina attualmente vive una condizione di strapotere economico internazionale, si è già aggiudicata la maggioranza delle riserve energetiche e delle materie prime nei bacini dove gli occidentali sono solo andati a depredare, ha rapporti economici con chiunque e rileva grosse fette del mercato finanziario con estrema facilità grazie alla liquidità monetaria della quale può disporre (per non parlare del credito in titoli di stato americani…): in una situazione simile, la dirigenza del PCC non si sognerebbe mai di fare concessioni o sconti a nessuno.
I cambiamenti, quando avverranno, nasceranno dall’interno della Cina, da quei milioni di giovani universitari che conoscono l’inglese e possono accedere alle notizie fuori dal loro paese.
Non credo dovremo aspettare molto per vedere l’inizio del nuovo corso…sono stato in Cina di recente e, ad istinto, qualcosa si sta smuovendo.
E’ un estremo piacere poter discutere con lei, signor Verni, di questi argomenti. Per un neolaureato di 23 anni sarebbe stato inimmaginabile se non attraverso un blog.
Grazie.
Matteo Miavaldi
Riguardo all’estetica del blog, il limbo tra la fine dell’università e l’entrata nel mondo del lavoro lascia moltissimo spazio per gli accorgimenti più superflui.
Caro Matteo, piacere mio.
E grazie ancora all’ottimo Marco Restelli per consentirci di poter effettuare questi nostri scambi di idee all’interno della vivace cornice di questo blog Milleorienti veramente ben fatto.
Alla prossima!
Piero Verni
[…] 2) Com’è noto, il motore di ricerca Google si sta ritirando dalla Cina: il 12 gennaio 2010 ha comunicato: A) di non voler più sottoscrivere – per poter operare sul mercato cinese – una politica di censura verso i siti e i portali sgraditi al governo di Pechino; B) di avere subìto, nel dicembre 2009, incursioni da parte di hacker cinesi (che hanno violato mail di clienti Google) in modo sospetto…(cioè senza un adeguato controllo da parte della polizia informatica cinese) Per queste ragioni Google probabilmente si ritirerà dalla Cina. Da questo ritiro chi trarrà vantaggio? Forse un altro player internazionale? Macché: ovviamente un motore di ricerca cinese, Baidu, totalmente sconosciuto nel mondo ma in posizione dominante nel mercato cinese (di cui controlla il 58,4%). Baidu ha un asso nella manica: oscura senza obiezioni tutti i siti sgraditi al governo cinese. E ora potrà gestire il mercato cinese dell’on line. Alla faccia del libero mercato. Per approfondimenti sul web e la libertà di espressione in Cina potete vedere questo post. […]
Cina-Tibet, necessaria una svolta per farla finita con un falso dialogo
di Francesco Pullia
Poco sanno, fatta eccezione per gli ascoltatori di Radio Radicale e della meritoria rassegna stampa egregiamente curata da Massimo Bordin, che Marco Pannella ha intrapreso ormai da diversi giorni uno sciopero della fame soprattutto per due nobilissimi motivi: 1) fare piena luce sulle responsabilità di chi ha preferito scatenare la guerra in Iraq ed eludere la proposta radicale, che stava per avverarsi avendo avuto importanti sostegni internazionali, di mandare in esilio il dittatore Saddam Hussein e 2) accertare da parte della comunità internazionale l’effettiva realtà sui negoziati tra Pechino e il Dalai Lama e sulle altre “minoranze etniche†in Cina, a cominciare dal popolo uiguro.
Si tratta di due punti estremamente gravi.
Per quanto riguarda il primo va ricordato che lo stesso Pannella, insieme al senatore radicale Marco Perduca e a Matteo Angioli si è recato a Londra in concomitanza con lo svolgimento dell’interrogatorio di Tony Blair alla Commissione d’inchiesta sulla guerra in Iraq guidata da Sir Chilcot. In una lettera apparsa sul prestigioso quotidiano “The Guardianâ€, il leader radicale ha tenuto a rammentare ad un mondo politico troppo distratto che in una riunione tenutasi il 23 febbraio nel ranch di Crawford del Presidente Bush, alla presenza di Aznar, e con Blair e Berlusconi in collegamento telefonico, lo scenario dell’esilio fosse stato ampiamente discusso (come dimostrato dagli appunti dell’allora ambasciatore spagnolo negli USA resi pubblici nel 2007 da Zapatero).
La Lega araba era, inoltre, pronta a richiedere formalmente l’esilio per Saddam con una risoluzione da adottarsi al summit di Sharm-el-Shaik del 1 marzo 2003. Purtroppo, l’irruzione sulla scena di Gheddafi impedì che la decisione fosse resa operativa.
L’incidente, sebbene ampiamente documentato anche dalla stampa araba, non e’ mai stato approfondito dalle varie commissioni del Congresso USA né dalla commissione di Sir Chilcot.
Per quanto concerne l’esito tutt’altro che incoraggiante delle trattative tra governo tibetano in esilio e Repubblica popolare cinese va denunciata apertamente la responsabilità della comunità internazionale, e dell’Onu in particolare, rivelatasi quanto mai debole, disinteressata, ricattabile dalle pretese di Pechino.
Non si può assolutamente tollerare che, con smisurata arroganza, Zhu Weiqun, vice ministro dell’“United Front Work Department†(UFWD) del Partito Comunista Cinese, al termine del nono fallimentare incontro con Lodi Gyari e Kelsang Gyaltsen, rappresentanti del Dalai Lama, abbia continuato a misconoscere il ruolo, e quindi l’interlocuzione, del governo attualmente a Dharamsala tacciandolo di “rappresentare una violazione delle leggi cinesiâ€.
L’atteggiamento prepotente manifestato dalla Cina nei confronti degli Stati Uniti a proposito della disponibilità di Obama a vedere il Dalai Lama non lascia adito a dubbi. Quello in corso tra la Cina comunista e il governo democratico tibetano non è un dialogo ma una farsa e tale rimarrà finchè, come appunto insiste pressantemente Pannella, la comunità internazionale non se ne farà davvero carico. Tra l’altro va aggiunto che a Pechino di riconoscere al Tibet l’autonomia invocata dal Dalai Lama non interessa proprio un fico secco. Ammesso pure che la concedesse sulla carta non avremmo alcuna garanzia che un regime così dispotico la attuerebbe. E’ bene che anziché restare invischiato in trattative che hanno tutto l’aspetto di una bell’e buona presa per i fondelli, il governo tibetano in esilio si assuma l’onere e l’onore di un satyagraha per il Tibet a largo raggio mettendo con le spalle al muro la stessa Onu e le varie istituzioni internazionali affinché si produca finalmente una svolta decisiva che assicuri la sopravvivenza del popolo tibetano e la fine di un incubo che dura dal 1949.
Francesco Pullia dixit: “E’ bene che anziché restare invischiato in trattative che hanno tutto l’aspetto di una bell’e buona presa per i fondelli, il governo tibetano in esilio si assuma l’onere e l’onore di un satyagraha per il Tibet a largo raggio mettendo con le spalle al muro la stessa Onu e le varie istituzioni internazionali affinché si produca finalmente una svolta decisiva che assicuri la sopravvivenza del popolo tibetano e la fine di un incubo che dura dal 1949.”
Quindi la soluzione, secondo i Radicali, sarebbe un’imposizione della comunità internazionale contro il governo dittatoriale (ma comunque sovrano) di Pechino? Cioè l’ONU va da Hu Jintao e gli dice “noi abbiamo deciso che il Tibet diventa autonomo”, delegittimando completamente il dialogo tra le autorità cinesi e quelle tibetane? Ma davvero pensate queste cose oppure sono le solite uscite altisonanti ed emotive per far vedere che siete “impegnati”?
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