Il cinema indiano, la globalizzazione e l’Italia
Cari amanti di Bollywood e dintorni, ecco il mio articolo pubblicato sullo scorso numero di LIMES – Rivista italiana di geopolitica (n° 6- 2009) con il titolo «Se dici cinema dici India», all’interno del dossier «Pianeta India». Dato che si tratta di un saggio con note bibliografiche, ogni tanto nel testo troverete un numero fra parentesi che rimanda alla nota in fondo al’articolo. Nelle note troverete citati anche quei siti, blog e forum della Rete italiana che si occupano, in tutto o in parte, di cinema indiano, e che potrete ritrovare, quasi tutti, nei “link amici†di MilleOrienti. Beh, l’articolo è un po’ lungo ma…buona lettura!
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Che cos’è oggi il cinema indiano? Anzitutto un imponente sistema industriale, dislocato in varie città dell’India (e non solo a Mumbai, nella celebre Bollywood) (1) che è il primo produttore di film al mondo: circa un migliaio di titoli all’anno in una trentina di lingue, con 6 milioni di addetti al lavoro e una media di 13 milioni di spettatori al giorno. Una così massiccia presenza nel mercato dell’entertainment affonda le proprie radici in una storia antica, perché in India il cinema arrivò fin da subito: era il 1896 quando un collaboratore dei fratelli Lumière proiettò in un hotel di Bombay L’arrivée d’un train à La Ciotat (realizzato a Parigi l’anno prima) suscitando un entusiasmo che si diffuse in tutto il subcontinente indiano. Già nel 1898 Hiralal Sen filma a Calcutta alcuni spettacoli di teatro classico; nel 1901 un fotografo di Bombay, Save Dada, realizza il primo cinegiornale indiano; nel 1905 a Madras un impiegato delle ferrovie, Vincent Swamikannu, compra da un operatore dei Lumière un proiettore e alcune pellicole diventando proiezionista itinerante; nel 1907 a Calcutta J.F. Madan realizza il primo circuito di sale cinematografiche; nel 1913 al Coronation Cinema di Bombay il regista Dadasaheb Phalke presenta il primo lungometraggio (a soggetto mitologico): Raja Harishchandra (Re Harishchandra). Da allora, la cinematografia indiana è cresciuta grazie all’apporto di tutte le comunità etniche e religiose del Paese (hindu, musulmani, cristiani, sikh, parsi, giainisti, ebrei) facendo del cinema il più popolare e il più nazionale fra tutti i media (2).
In oltre un secolo di vita, l’industria cinematografica indiana è stata terreno fertile per figure di geniali registi-produttori (basti pensare a un gigante degli anni Cinquanta come Raj Kapoor, membro della più nota dinastia di cineasti di Bollywood)(3), ma anche per affaristi senza scrupoli, che hanno riciclato nella produzione cinematografica i fondi neri della criminalità organizzata. Oggi però, sottoposta a un sistema di regole controllate dallo Stato, la cinematografia indiana ha raggiunto una nuova maturità sul piano industriale e un alto livello di qualità sul piano dei prodotti; non è un caso quindi che il cinema indiano si sia pienamente inserito, almeno da un decennio, nei processi economici e culturali della globalizzazione (4). Per fare un esempio di questa nuova dimensione internazionale, nel 2008 il kolossal storico bollywoodiano Jodhaa Akbar (di Ashutosh Gowariker) è uscito con successo in 1.500 sale di 25 nazioni in tutti i continenti.
L’attuale stato di salute dell’industria cinematografica indiana risulterà chiaro considerando alcuni semplici dati. Un rapporto della Federation of Indian Chambers of Commerce and Industry diffuso nel febbraio 2009 prevede che l’anno si chiuderà con un incasso totale di 2,2 miliardi di dollari, con un leggero calo rispetto agli ultimi anni. Anni in cui il cinema è stato l’industria con il maggiore tasso di crescita del Paese (17%), con un incremento delle esportazioni del 60%. Quanto al futuro, nel prossimo quinquennio si stima che l’industria cinematografica indiana registrerà una crescita del 13% nel mercato interno e questa percentuale sale al 19% se si considera la raccolta estera (5). Sono percentuali superate, nel subcontinente, solo dal business dell’Information and Communication Technology. E tutto ciò benché il prezzo medio del biglietto nelle sale indiane resti ancora il più basso del mondo, con un’ovvia ricaduta (in basso) dei guadagni. Per quanto riguarda il sistema distributivo, nei prossimi tre anni è previsto un aumento dei multiplex del 400%, e il numero di ingressi nelle sale è stimato in un range fra i 3,5 e i 4 miliardi di biglietti annui venduti.
Ciò non significa che l’industria cinematografica indiana non risenta di vari fattori di crisi, oltre naturalmente alla recessione mondiale in corso: vi sono problemi cronici come la pirateria (particolarmente diffusa nel subcontinente) e nuove tensioni come lo scontro fra produttori cinematografici e proprietari di multiplex sulla ripartizione degli incassi. Peraltro, i produttori cinematografici si stanno attrezzando ad affrontare un’importante ristrutturazione: se solo fino a tre anni fa il box office rappresentava l’85% degli incassi mentre il restante 15% era ripartito fra diritti televisivi, home video e altre piattaforme, oggi il rapporto è cambiato in un fifty/fifty, e ciò implica un ripensamento delle produzioni in direzione della Tv e dei nuovi media (6). Accanto a ciò, verrà rivolta sempre maggiore attenzione al ricchissimo mercato costituito dai NRI, i Non Resident Indians che vivono soprattutto in Medio Oriente, Usa, Canada e Gran Bretagna: sono 20 milioni di persone con un patrimonio complessivo di 300 miliardi di dollari. In particolare, la comunità americana di origine indiana conta quasi 20.000 milionari (si pensi alla folta presenza indiana a Silicon Valley) e usufruisce di cinema specializzati in film indiani in Illinois, New York, New Jersey, Michigan e Texas.
Il mercato dei Non Resident Indians (a cui vanno aggiunti i pakistani e i srilankesi residenti all’estero, da sempre consumatori di cinema indiano) costituisce naturalmente anche una porta d’ingresso ai mercati di varie aree del globo. Proprio per promuovere all’estero i film indiani l’industria cinematografica ha creato una serie di premi, il più celebre dei quali è, dal 2000, l’International Indian Film Academy Award (7), che ogni anno tiene le proprie kermesse in un Paese diverso; l’edizione del 2009 si è tenuta in Cina, a Macao ed è stata seguita da oltre mezzo miliardo di telespettatori in tutto il mondo.
A questi risultati il cinema indiano giunge dopo un decennio in cui ha esercitato una profonda influenza sui linguaggi della globalizzazione; tuttavia in alcuni Paesi occidentali (fra i quali spicca l’Italia, che distribuisce i film indiani solo sporadicamente) non c’è una chiara percezione della dimensione del fenomeno. Eppure, tutti coloro che quando pronunciano la parola “globalizzazione†intendono dire “occidentalizzazione†furono clamorosamente smentiti già nel 1999, quando il servizio News della Tv britannica BBC condusse un grande sondaggio online per capire chi fosse, all’alba del nuovo millennio, l’attore più popolare del pianeta; in quell’occasione gli alfieri della “globalizzazione come occidentalizzazione†scoprirono con sorpresa che l’attore più votato non era un americano (come previsto) bensì un indiano: Amitabh Bachchan. Il risultato di quel sondaggio rappresentava, anche sul piano simbolico, un punto di svolta, sancendo per la prima volta un’egemonia del cinema indiano nell’immaginario collettivo.
A un decennio di distanza, è interessante vedere cosa resti della fama planetaria del vincitore. Per capirlo, prendiamo in esame la Rete. Se consideriamo il fatto che Bachchan era all’apice della sua carriera negli anni Settanta del secolo scorso (dunque ben prima della diffusione di Internet) è notevole che ancora oggi, digitando il suo nome nel motore di ricerca Google, si ottengano 2.570.000 siti; risultato superato da quelli delle nuove superstar indiane, Shahrukh Khan (3.320.000 siti) e Aishwarya Rai (5.870.000 siti); ancora poco, tuttavia, se consideriamo che la sola parola “Bollywood†dà accesso a oltre 51 milioni di siti.
Ma torniamo per un attimo al 1999: proprio quando il sondaggio BBC incoronava il “vecchio leone†Amitabh Bachchan, il giovane Shahrukh Khan si candidava a sostituirlo sull’onda dell’importante successo riscosso da un film di cui era protagonista. Questo film (girato in gran parte a Mauritius nel 1998) era Kuch Kuch Hota Hai (Qualcosa è accaduto) del regista Karan Johar, e costituiva una prima vera prova che la commedia musicale popolare made in India poteva essere competitiva anche nei mercati esteri, con un guadagno finale di quasi 17 milioni di dollari. Non una cifra impressionante se paragonata ai blockbuster dell’industria americana, ma molto significativa per un cinema come quello di Bollywood che fino a non molto tempo prima aveva realizzato i propri prodotti pensandoli essenzialmente per il mercato interno (il che non toglie che circolassero poi in Asia, Africa e Medio Oriente, oltre che nelle comunità indiane stanziate in Occidente). Il risultato era notevole perché, va sottolineato, all’epoca Kuch Kuch Hota Hai era un prodotto con un linguaggio ancora poco accessibile alle platee occidentali (dieci anni dopo, la nostra percezione del cinema indiano è diversa…): era infatti una love story in puro stile masala. Con l’espressione masala movie si intende quel meta-genere cinematografico (mix di sentimentalismo sopra le righe, dramma, azione, danze, etc) che è stato il marchio di fabbrica del melodramma musicale di lingua hindi, chiamato con il nome della mistura di spezie (masala appunto) comunemente usata nella cucina indiana. Sono appunto i masala movie ad aver fatto la storia e la fortuna commerciale del cinema popolare bollywoodiano presso il pubblico indiano, ma proprio la loro indianità – ovvero le peculiarità sul piano strutturale, narrativo, estetico – ne hanno limitato per decenni la possibilità di penetrazione nei mercati occidentali.
In parallelo al mainstream dei masala movie (in gran parte ancora oggi destinati al mercato interno) il decennio che sta concludendosi ha visto però anche l’affermarsi di un nuovo tipo di cinematografia indiana, che ha nel proprio DNA una vocazione “global†ed è comunemente nota con l’etichetta di “Middle Cinema†(8). Il Middle Cinema è nato dalla sintesi culturale di due cinematografie che a lungo in India si erano sfidate fra loro, e fra loro erano diversissime in ogni campo: per scelte tematiche, pratiche estetiche, capacità produttiva e distributiva, influenze culturali. Semplificando per chiarezza, si era trattato della lotta fra Davide e Golia.
Da una parte dunque il gigante Golia, cioè Bollywood e le altre Città del Cinema popolare indiano, caratterizzate da ricchezza produttiva gestita dalle major e da grandi capitali privati, ampio controllo dei canali distributivi e crescente glamour dello star system. Un’oliata macchina per la produzione di sogni, cioè masala movie pensati per un pubblico popolare per il quale il cinema è sempre stato puro “territorio del sognoâ€, camera di compensazione delle miserie della realtà , spettacolarizzazione dei sentimenti (sostenuta da una recitazione che a occhi occidentali risultava enfatica e straniante), largo uso di numeri di musica e danza (mediamente sei a film) derivati da una intelligente reinterpretazione delle tradizioni musicali e teatrali dell’India classica (9). Un cinema per definizione “di evasione†che però talvolta riuscì anche a parlare dell’India reale in termini accessibili a un pubblico spesso analfabeta, grazie a cineasti di grandissimo valore (il già citato Raj Kapoor, Guru Dutt e tanti altri). Un cinema sul cui target fanno luce le famose parole del regista Manmohan Desai: «Il mio pubblico non finisce alla periferia di Bombay. Comincia lì». Un cinema, insomma, trionfante nel proprio Paese, ma – salvo eccezioni - privo di riconoscimenti critici all’estero, almeno fino a pochi anni fa.
Dall’altra parte del campo di battaglia, il piccolo Davide: il cinema d’Autore. Con la A maiuscola, perché Autori si sentirono e si
definirono i registi indiani che si contrapposero ideologicamente (soprattutto negli anni Settanta) alle produzioni commerciali delle major. Autori di un cinema povero, talvolta poverissimo, prodotto all’inizio con rocambolesche ricerche private di fondi e in seguito sostenuto dallo Stato per mezzo della National Film Development Corporation; ma sempre senza i mezzi delle major e con una povertà distributiva che confinava questi film nei cineclub delle metropoli indiane, senza raggiungere il pubblico di massa. Un cinema elitario anche per vocazione, certo, nella sua orgogliosa rinuncia ai “must†di Bollywood, primo fra tutti l’uso dei balletti e dei numeri musicali. Un cinema, soprattutto, rabbiosamente votato al realismo, capace di raccontare la vita quotidiana della gente – fossero contadini, proletari inurbati o borghesi – con una maestrìa nutrita di suggestioni culturali europee: il neorealismo italiano per Satyajit Ray negli anni Cinquanta, il marxismo per Ritwik Ghatak, la Nouvelle Vague francese per Mrinal Sen e molti altri registi che negli anni Settanta parteciparono al New Indian Cinema (noto anche come Parallel Cinema, inteso come parallelo al mainstream di Bollywood) (10). Era un cinema privo di glamour e di star system ma interpretato da attori di prima grandezza, formatisi in raffinate scuole statali come il Film and Television Institute di Pune, lontanissimi dall’enfasi recitativa in uso a Bollywood. Un cinema che ebbe un destino paradossale: in patria non raggiunse quasi mai il successo di pubblico, all’estero invece fu coperto di onori e di premi, nei festival cinematografici e non solo (fino all’Oscar alla carriera per Satyajit Ray nel 1992); senza però diventare mai appetibile per i mercati e quindi rimanendo noto solo ai cinéphiles anche in terra straniera.
Davide contro Golia, film d’arte contro cinema nazional-popolare. Le qualità e i difetti, sia chiaro, furono equamente suddivisi nei due campi (perché il cinema commerciale fu anche ricco di talenti geniali mentre il cinema d’autore fu talvolta incapace di parlare a quella gente comune le cui vite ambiva a narrare). Ma il dato che qui ci importa sottolineare è un altro: è da una sintesi delle esperienze e delle culture di entrambe queste cinematografie che è nato, a partire dagli anni Novanta, il Middle Cinema. Ovvero quel cinema indiano contemporaneo capace di imporsi internazionalmente – tanto sul piano della qualità quanto su quello commerciale – e di influenzare profondamente i linguaggi visivi della globalizzazione. Un Middle Cinema in grado di mixare tradizione bollywoodiana e pratiche estetiche del cinema americano ed europeo, coniugare i temi realistici e gli approcci stilistici autoriali con i territori del sogno che hanno fatto la fortuna dei masala movie. Da qui deriva un cinema indiano forte di una maggiore maturità culturale e produttiva rispetto al passato, in grado di inserirsi pienamente nella globalizzazione e diventarne protagonista.
Per fare un esempio di Middle Cinema noto anche in Italia (Paese fanalino di coda nella distribuzione di cinema indiano) si può ricordare Monsoon Wedding: il film della regista Mira Nair vinse il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2001 (raccogliendo poi altri premi in Gran Bretagna e in Australia), ma lungi dal rimanere confinato al pubblico dei festival e dei cineclub, diventò anche un notevole successo commerciale: costato 1,5 milioni di dollari, ne guadagnò 30, oltre la metà dei quali nei mercati americano e britannico (11). Questa vocazione internazionale fa parte, come abbiamo detto, del DNA del Middle Cinema, e non a caso si è spesso evidenziata nell’opera di registi residenti all’estero, come la stessa Nair, dimostratisi capaci di realizzare film adatti al pubblico occidentale; per rimanere nel campo dei pochissimi film indiani distribuiti in Italia, ricordiamo i casi di Matrimoni e pregiudizi di Gurinder Chadha (coproduzione indo-americana del 2004) e la trilogia Fuoco, Terra e Acqua completata nel 2005 dalla filmmaker indo-canadese Deepa Mehta.
E arriviamo così al presente. Un decennio dopo il sondaggio BBC, dunque, la posizione assurta dalla cinematografia indiana nel sistema globale dell’entertainment non è più una sorpresa bensì un dato di fatto. Fra Hollywood e Bollywood sono stati stipulati accordi commerciali e produttivi di grande rilievo, come quello fra la Walt Disney Co. e la Yash Raj Film per la produzione di cartoni animati, o come quello perfezionato nell’agosto 2009 fra la Dreamworks di Steven Spielberg e la Reliance di Anil Ambani per un valore di 825 milioni di dollari (12). Inoltre, seguendo il Middle Cinema, le major di Bollywood cominciano a produrre pensando anche a un pubblico dai gusti globalizzati; così, dopo decenni di chiusura, il mainstream bollywoodiano mostra un’inversione di tendenza e comincia a utilizzare attori stranieri. E’ il caso di Kambakkht Ishq (“Dannato amoreâ€), un masala movie del 2009 diretto da Sabir Khan, che vede recitare insieme star indiane (Akshay Kumar e Kareena Kapoor) e americane (Sylvester Stallone e Denise Richards). E – per fare un esempio italiano – è anche il caso di Barah Aana (“Spiccioliâ€), film drammatico del 2009 in cui il regista Raja Menon ha utilizzato, accanto a un’icona come Naseeruddin Shah, l’attrice italiana Violante Placido.
La tendenza dominante è quindi quella di un melting pot di linguaggi che ha avuto il suo esito più noto negli 8 premi Oscar vinti nel 2009 da Slumdog Millionaire: diretto da un inglese e da un’indiana (Danny Boyle e Loveleen Tandan), ambientato in India, tratto da un romanzo indiano (Le dodici domande di Vikas Swarup), interpretato da indiani e prodotto con capitali internazionali. Può essere definito un film indiano? Le disquisizioni in merito sono risultate tanto numerose quanto pedanti. Non è superfluo invece notare che l’Oscar al compositore della colonna sonora, l’indiano A. R. Rahman, suona come un riconoscimento a una raffinatissima tradizione musicale che dall’India classica, passando attraverso varie forme coreutiche e teatrali (13), è giunta fino alle interpretazioni che ne ha dato il cinema indiano, e in particolare Bollywood. La scena finale di Slumdog Millionaire non è certo il primo omaggio di un regista occidentale ai numeri di musica e danza Bollywood-style; basti pensare a certe scene di ballo in Moulin Rouge di Baz Luhrman, o, per venire al cinema italiano, all’episodio sul matrimonio indiano nel recentissimo Oggi Sposi di Luca Lucini.
In effetti, va ricordato che Bollywood non sarebbe Bollywood senza la musica e la danza (e questo vale per il cinema popolare indiano di ogni regione e lingua). Sul piano commerciale, le colonne sonore dei film sono la principale fonte di introiti per l’industria musicale indiana, e costituiscono un fondamentale traino per quella cinematografica, dato che il successo o l’insuccesso di un film sono spesso determinati dalla colonna sonora. Sul piano strutturale e narrativo, inoltre, «la musica, in un film di Bollywood, non è un accessorio, è parte integrante della sintassi del film. Con le canzoni i personaggi esprimono i loro sentimenti e pensieri, e dunque le canzoni definiscono la psicologia del personaggio. La musica e la danza veicolano emozioni che arricchiscono il film, i colori e la vivacità dei balletti esprimono lo spirito stesso del cinema di Bollywood – che è sogno, gioia, inno alla vita – insomma non esiste Bollywood senza musica! Perché la musica (tanto più se accompagnata dalla danza) è un linguaggio emozionale universale.» (14). Per queste ragioni è risultata assurda la scelta operata da Rai Uno nell’estate 2009: trasmettere in prima serata una rassegna di film di Bollywood, intitolata Amori con…turbanti, tagliando però dai film tutti i numeri di musica e danza. Una scelta che non ha mancato di sollevare forti proteste nei numerosi blog e forum di appassionati di cinema indiano nel web italiano.
La scelta Rai di scindere il cinema indiano dalla sua musica – pensando che il pubblico nostrano, chissà perché, non possa apprezzarli insieme – fa il paio con la scelta dei distributori cinematografici italiani, che quasi in splendida solitudine persistono nel non importare il cinema indiano nelle nostre sale. Il Belpaese non sarebbe interessato al cinema indiano? Eppure cineasti italiani parteciparono, in India, alle prime avventurose produzioni cinematografiche sin dall’epoca del muto (15); eppure, aggiungiamo, fu l’Italia il primo Paese al mondo a invitare un film indiano a un festival cinematografico, nel 1936, e a premiarne tanti altri nel corso del tempo (16); eppure, ancora, è nato in Italia, nel 2001, il primo festival europeo dedicato al cinema indiano (17); eppure, come abbiamo ricordato, il web italiano è ricco di siti dedicati a Bollywood e dintorni (18); eppure, la serie di film trasmessa su Rai Uno ha riscosso – benché mutilata – un ottimo successo. E si potrebbe continuare…
Resta da sperare che l’Italia si accorga delle potenzialità offerte dall’industria cinematografica indiana almeno su un altro terreno: quello dell’utilizzo dei film di Bollywood come strumento di promozione turistica del nostro territorio. Dagli anni Novanta le produzioni cinematografiche indiane all’estero si sono moltiplicate, stimolando un “turismo cinematografico†di tutto rispetto nei Paesi che le hanno ospitate, dato che molti indiani upper class quando apprezzano un film decidono di visitare poi i luoghi delle riprese. In questo campo la Svizzera può darci lezioni interessanti: divenuta il set di tanti film bollywoodiani (all’inizio “ambientati†in Kashmir, poi dichiaramente in Svizzera) ottiene grossi ritorni economici ormai da una decina d’anni. Ma le Alpi italiane non hanno nulla da invidiare a quelle svizzere, e potrebbero costituire un’attrattiva sia per le produzioni cinematografiche indiane sia per l’indotto turistico causato da quei film (19). In questo campo, qualche timido esempio in Italia c’è già stato, con commedie di Bollywood come Bachna ae haseeno (“Attenzione, bellezzeâ€, di Siddharth Anand, 2008), girato fra Venezia, Roma, Capri e varie località della Puglia. A Venezia – location romantica per eccellenza – sono state girate scene anche di altri film indiani (20), ma come non pensare alle enormi potenzialità d’attrazione di tutto il nostro territorio nei confronti di Bollywood, sempre alla ricerca di location “esoticheâ€? C’è solo da augurarsi che l’Italia, prima o poi, decida di scoprire l’esistenza dell’industria cinematografica più grande del mondo.
NOTE BIBLIOGRAFICHE E SITOGRAFICHE
(1) Cfr. M. Restelli: lemma «Bollywood» in G. Canova (a cura di) Cinema, collana Le Garzantine, Garzanti 2009. Va ricordato che oltre a quello di Bollywood (crasi di Hollywood e Bombay, il vecchio nome di Mumbai, capitale produttiva dei film in lingua hindi) sono ormai invalsi altri toponimi per indicare i maggiori centri produttivi del cinema indiano; i più noti sono Kollywood (che indica il cinema di lingua tamil prodotto a Kodanbakkam, distretto di Chennai, capitale del Tamil Nadu), Tollywood (variamente usato per indicare sia il cinema di lingua telugu prodotto ad Hyderabad nell’Andhra Pradesh, sia il cinema di lingua bengali prodotto a Tollygunge in Bengala) e Mollywood (usato per indicare la cinematografia di lingua malayalam del Kerala). Va notato che a Bollywood (cioè a Mumbai) si producono solo il 20-25% circa dei film indiani, ma sono quelli di maggiore diffusione e successo sia in India sia sul mercato internazionale.
(2) Per una sintetica introduzione alla storia della cinematografia indiana si vedano: E. Aime, Storia del cinema indiano, Lindau 2007; A. Morsiani, Il cinema indiano, Carocci 2009; M. Restelli, «A Est di Hollywood», in M. Restelli – C. Del Mare, India in progress. Gli aspetti di una sfida, Ariete 1992, pp. 84-101. Per una disamina dei protagonisti della storia del cinema indiano si veda invece l’autorevole opera di A. Rajadhyaksha – P. Willemen, Encyclopaedia of Indian Cinema, British Film Institute/Oxford University Press 1999. Infine, una nota a margine: fra i protagonisti del cinema indiano ci furono numerosi membri delle antiche comunità ebraiche dell’India, i quali quasi sempre apparvero sullo schermo con nomi d’arte che celavano la propria origine ebraica (pur essendo l’India storicamente immune dal morbo dell’antisemitismo); per qualche accenno al contributo – significativo ma ancora poco studiato – delle comunità ebraiche indiane a Bollywood, si veda M. Restelli, «Mumbai e Cochin: quel Talmud al profumo di curry», in Bollettino della Comunità Ebraica di Milano, 2009, n° 10, pp. 16-18.
(3) Negli anni Cinquanta i capolavori di Raj Kapoor, Awaara (“Vagabondoâ€) e Shri 420 (“Il signor 420â€) ebbero grande diffusione e successo in Unione Sovietica e nei Paesi del blocco socialista. Su Raj Kapoor si vedano: R. Nanda, Raj Kapoor speaks, Penguin Books India 2007; L. Khubchandani, Raj Kapoor the Great Showman, Rupa & Co. 2003. A un altro talentuoso esponente della dinastia Kapoor, Shashi Kapoor (fratello di Raj), è dedicato in gran parte il volume di C. Cossio, Cinema in India. Lo strano caso di Shashi Kapur, Cafoscarina 2005.
(4) Cfr. M. Lorenzen – F. A. Taeube: Breakout of Bollywood? Internationalization of Indian Film Industry, Danish Research Unit for Industrial Dynamics (www.druid.dk),Working Paper del giugno 2007. Si veda anche J. Gomes: Internationalization of the Indian Film Industry, The Indo-Italian Chamber of Commerce and Industry, 2003 (www.indiaitaly.com/).
(5) Cfr. India Perspectives, gennaio-marzo 2009, pp. 2-3. Fonte: Federazione delle Camere di Commercio Indiane.
(6) Cfr. L. Shackleton, «The Indian Film Industry and the Global Economic Crisis», in Screen Daily.com 23/01/2009 (http://www.screendaily.com/theindian-film-industry-and-the-global-economic-crisis/4042827.article).
(7) Cfr. www.iifa.com/web07/cntnt/iifa.htm. Altri premi creati una decina d’anni fa per la promozione del cinema indiano all’estero sono lo Star Screen Awards, lo Zee Cine Awards e il Global Indian Film Awards. Ma i più prestigiosi – e importanti per il mercato interno – restano i due più vecchi, entrambi assegnati dal 1954: il National Film Awards (l’equivalente dell’Oscar per il cinema indiano) assegnato ogni anno a Delhi da una commissione di critici nominata dallo Stato; e il Filmfare Awards, legato alla celebre rivista di cinema Filmfare e attribuito da una giuria mista di critici e di pubblico.
(8) Cfr. Y. Thoraval: «A kaleidoscopic geography of the cinemas of India», in I. Spinelli (a cura di), Indian Summer. Films, Filmakers and Stars between Ray and Bollywood, 55° Festival Internazionale del Film di Locarno, Olivares 2002, pp. 44-46.
(9) Per un rapido excursus delle correnti che hanno caratterizzato questo meta-genere e dei titoli che hanno fatto la storia di Bollywood, si vedano (oltre alle opere già citate nella nota 2): S. K. Jha, The Essential Guide to Bollywood, Roli Books/Lustre Press 2005; R. Dwyer, 100 Bollywood films, Roli Books/Lotus Collection 2005; K.M.Gokulsing – W. Dissanayake, Indian Popolar Cinema. A Narrative of Cultural Change, Trentham Books 1998. A margine, vale la pena di notare che alla spettacolarizzazione e sovraesposizione dei sentimenti propria dei masala movie, e in particolare dei sentimenti amorosi, ha sempre fatto da contraltare una rigida censura del corpo femminile e della sessualità , nascosta/esibita in scene castamente pruriginose, tanto che fino ad anni recentissimi sugli schermi indiani non è stato mostrato nemmeno un bacio. Sulle problematiche della censura nei film indiani si legga D. Bose, Bollywood Uncensored. What you don’t see on screen and why, Rupa & Co. 2005.
(10) La materia del cinema indiano d’autore è ovviamente immensa, e per un’introduzione ai cineasti più importanti rimandiamo ai rispettivi lemmi in G. P. Brunetta (a cura di), Dizionario dei registi del cinema mondiale, Einaudi 2008. Oltre alle storie del cinema citate nella nota 2, si vedano: K. Bhaumik – L. Jordan (eds.), Indian Cinema Book, British Film Institute 2008. AA. VV. – Cinemasia 85, Le avventurose storie del cinema indiano. Vol. I Scritture e contesti, Vol. II Estetiche e industria, Marsilio/Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro 1985. E. Magrelli, Il contrasto, il ritmo, l’armonia. Il cinema di Satyajit Ray, Di Giacomo 1986. D. Ferrario (a cura di), Mrinal Sen e il cinema indiano, Bergamo Film Meeting 1983. M. Restelli, lemma «New Indian Cinema» in G. Canova (a cura di), op. cit.
(11) Cfr. J. Gomes, Internationalization…op cit., p. 37-38.
(12) Cfr. M. Speier, «Dreamworks, Reliance Finally Get Hitched», in The Wrap 17/08/2009, www.thewrap.com/
(13) Sulle tradizioni musicali e coreutiche dell’India si vedano: P. Pacciolla – A. L. Spagna, La gioia e il potere. Musica e danza in India, Besa 2008; M. Angelillo, Le danze indiane, Xenia 2008.
(14) Cfr. M. Restelli, «Una rassegna di Bollywood su Rai 1. Ma perché la Rai massacra i film indiani?», in MilleOrienti, 12/07/2009, http://milleorienti.wordpress.com/2009/07/12/un-ciclo-di-bollywood-su-rai-1-ma-perche-la-rai-massacra-i-film-indiani/
(15) Cfr. C. Cossio, Cinema in India…op. cit, p. 36.
(16) Fu la Mostra del Cinema di Venezia a invitare per prima un film indiano, Amar Jyoti di R. V. Shantaram. L’anno seguente, a Venezia fu premiato Sant Tukaram di V. Damle e S. Fatehlal. Non si può non ricordare inoltre almeno il Leone d’Oro ad Aparajito («L’invitto», secondo atto della Trilogia di Apu) di Satyajit Ray nel 1958, e poi i riconoscimenti dati dall’Italia a Mrinal Sen, K.A. Abbas e altri, fino al già citato Monsoon Wedding di Mira Nair.
(17) E’ il River to River – Florence Indian Film Festival, nato nel 2001. La nona edizione si è tenuta a Firenze dal 4 al 10 dicembre 2009. Cfr. http://www.rivertoriver.it/R2R2009/index.php.
(18) Per fare solo alcuni esempi di siti dedicati al cinema indiano o che trattano anche di cinema indiano, oltre al citato MilleOrienti (http://milleorienti.wordpress.com)Â si vedano Bollywood-Italia Forum (http://bollywooditalia.forumfree.org/), Cinema Hindi (http://cinehindi.blogspot.com/), Kalpana.it (http://www.kalpana.it/index.htm), Guida India (http://www.guidaindia.com/), I love India (http://iloveindia.myblog.it/), Asia Media (http://venus.unive.it/asiamed/). Nella Rete italiana peraltro non mancano anche blog e siti dedicati a singoli attori indiani, quali Tutti pazzi per Shah Rukh Khan (http://webspace.webring.com/people/ps/srkitalianfan/index4b.htm).
(19) Si veda al riguardo l’interessante lavoro compiuto da I. Fucci per la sua Tesi di Laurea Specialistica in Progettazione e Gestione dei Sistemi Turistici Mediterranei: In viaggio con Bollywood. Il cinema indiano come strumento di promozione turistica, Università degli Studi di Pisa (Campus Lucca), Anno Accademico 2008/2009. Fucci analizza il caso Svizzera come esempio per una politica italiana del turismo che sappia attrarre gli indiani promuovendo le produzioni di Bollywood nel nostro Paese. Il lavoro di Fucci è inedito, ma meriterebbe sicuramente una pubblicazione.
(20) Cfr. I. Fucci, In viaggio con Bollywood…op. cit., pp. 132-133.

complimenti per l’articolo, sono abbonato a Limes e ti avevo già letto. Non ho potuto fare a meno di citare da me il tuo post sull’ultima dei Bo per motivi evidenti.
Se posso vorrei chiedere una piccola domanda sul fattore “location”, che è più una curiosità che altro: quali sono i motivi che spinsero per la prima volta i registi di Bollywood ad ambientare fisicamente queste scene favolose in zone europee? Un mero fattore esotico (ma le locations si potrebbero ricostruire in loco!), economico (costa più girare in studi con ricostruzioni che in un Paese estero?), di prestigio o turistico (come lei propone in questo articolo)?
Facendo un esempio su cui mi lambicco da sempre le meningi, il magnifico Hum Dil De Chuke Sanaam, benché sia evidentemente stato girato a Budapest, viene “spacciato” per ambientato in Italia. Sabrina Ciolfi nel suo articolo “La gestualità dell’amore dal kÄvya al cinema popolare hindi contemporaneo. Una breve analisi del film Hum Dil De Chuke Sanam” (che si trova in Argumenta Antiquitatis, a cura di Giuseppe Zanetto e Massimiliano Ornaghi, Quaderni di Acme 109, Cisalpino Istituto Editoriale Universitario, Milano 2009, pp. 145-165, giusto per citare per bene la fonte) asserisce che la concezione estetica indiana trascende il realismo, e le do ragione ovviamente, le scene oniriche soprattutto, in cui non abbiamo dissolvenze fra la realtà e la fantasia come avviene nel cinema occidentale, danno la prova di ciò.
Tuttavia, riprendendo sempre il caso di questo film, non mi torna: se la Svizzera è usata come luogo di fantasia senza una vera ubicazione spaziale (è un po’ un paesaggio della mente), dare delle coordinate così sfalsate per l’ambientazione di metà film circa mi fa solo pensare o alla mancata ricezione di permessi per girare in Italia o alla maggior economicità dei set in Ungheria. Poveri turisti ricchi, rischiano così di andare in Ungheria e pensare sia l’Italia, o viceversa 😛
Perdonami la battuta ironica finale, la mia era una domanda a suo modo “seria”.
Invece per quanto riguarda la mancata distribuzione di film indiani in Italia (piango ricordando all’estate scorsa, che andai in Polonia e nei negozi di dvd cittadini non mancavano mai polpose sezioni di cinema bollywoodiano, e asiatico in generale), in genere mi si dice che è perché in Italia non c’è una grande comunità indiana come nel resto d’Europa/nel mondo.
Rimango un po’ basita, perché penso di aver visto più indiani in Italia (sud/centro/nord) che in Polonia, appunto. Ma magari si nascondono, non saprei.
Per quanto riguarda il Middle Cinema (lo so parlo troppo), devo dire che da un lato sono felice che esista perché data la sua natura ibrida permette anche agli spettatori più diffidenti/conservatori/ottusi (la climax è voluta ehm!) di entrare nel cinema indiano. Dall’altra… ha tipo 1 terzo della magia di un film bollywoodiano standard (fatto bene, sia chiaro). Il motivo per cui mi appassionai a Bollywood fu appunto perché il modo di narrare e l’enfasi apportata dalle pellicole è assolutamente unica e speciale, non vorrei che facendo penetrare solo film di Mira Nair e compagnia bella nel nostro Paese passasse il messaggio che i film di Bollywood di oggi non sono così tanto distanti dal cinema occidentale. Oddio anche qua tocco un tasto dolente, visto che l’occidentalizzazione anche della Bollywood dura-e-pura è un po’ evidente, purtoppo, ma mi fermerò qui.
Dopo aver sbrodolato qua e là mi eclisso che è meglio.
Grazie ancora per l’articolo!
te l’ho già detto vero che il tuo articolo è molto bello? Io poi che mi sono sempre sorbita le rassegne di film indiani d’epoca..!
ps volontariamente, anche se talvolta, data la lunghezza e la lentezza, erano un po’ soporiferi, diciamocelo. Belli e soporiferi.
[…] di Hollywood: dopo avere realizzato una grande joint-venture con la Dreamworks di Steven Spielberg (di cui MilleOrienti ha parlato qui) sta preparando la scalata alla Metro Goldwin […]
@Enrica ed Enrico Bo: i vostri giudizi mi fanno molto piacere, grazie! In effetti tutto il numero di LImes era interessante, grazie anche all’intervento di Enrica sulla dinastia Nehru-Gandhi. Ma , Enrica, io non trovo che i film d’autore indiani siano soporiferi..:-) forse sono un po’ fanatico 🙂
@Kalla: grazie del tuo bellissimo intervento; rispondo in velocità per punti:
– le location dei film all’estero (non solo in Europa) sono dovute a fattori economici e sociali: i nuovi indiani – i giovani, gli studenti, i NRI – viaggiano e hanno ormai uno sguardo al di là delle frontiere, ambientare le scene di ballo intorno al Taj Mahal non bastava più…
– in Italia gli indiani ci sono eccome, e ci sono anche gli italiani interessati alla cultura indiani, ma i nostri distributori cinematografici non se ne sono ancora accorti. Articoli come quello su Limes sono scritti anche nella speranza di svegliare un po’ l’assopito mercato cinematografico italiano. E anche per far capire alle regioni e alle istituzioni italiane che un magiore link all’industria cinematografica indiana potrebbe essere una grande opportunità , non solo sul piano cinematografico ma anche su quello della promozione turistica del nostro territorio.
– grazie per avermi fatto conoscere l’articolo su Argumenta Antiquitatis, che mi era sfuggito. Sull’ispirazione dell’arte indiana rimando te e i lettori interessati al libro del grande Ananda Coomaraswamy, «Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte» (Adelphi) che a pag. 110 scrive: «Secondo il Sahitya Darpana…”l’arte è un enunciato informato della bellezza ideale”. L’enunciato è il corpo dell’opera, il rasa ne è l’anima; non è possibile dividere l’enunciato e la bellezza in entità distinte».
Per quanto riguarda l’articolo da te citato su A.A. posso chiarire citando la nota 4 della stessa pagina del libro di Coomaraswamy: «Il termine kavya, che vuol dire specificamente “poesia” (in prosa o in versi) può anche essere inteso nel significato generico di “arte”. I significati fondamentali della radica ku includono l’idea di sapienza e abilità »:
– Quanto al fatto che i film di Bollywood abbiano più magia dei film indiani d’autore, scusa ma non sono assolutamente d’accordo! Ogni volta che rivedo la Trilogia di Apu di Satyajit Ray o Oka Oorie Katha di Mrinal Sen mi commuovo ancora!
Beh, avremo altre occasioni di discutere, no? 😉
ciao
Marco
[…] 20/02/2010 di marco restelli Chissà cosa avrà pensato il famoso Italiano Medio? (Ammesso che esistano, poi, l’Italiano Medio e la Sciura Pina…) Mettetevi nei panni del nostro Italiano Tedio: è sabato sera e lui è lì in pantofole, stravaccato sul divano in salotto, a guardare il Festival di Sanremo, che è bello perché è sempre un po’ uguale, quando all’improvviso… ti spuntano l’attore Emilio Solfrizzi (foto) adobbato da indiano e un bel po’ di ballerine in sari per fare una Bollywood dance?! E che è ’sta roba?? Solfrizzi & company erano a Sanremo per presentare la fiction Rai Tutti pazzi per amore/2 e per farlo hanno scelto di mettersi in sintonia con i gusti di tanti giovani italiani: con la Bollywood dance, appunto. E hanno scelto un pezzo che è ormai un classico di Bollywood: shava shava, dal film del 2001 Kabhi Khushi Kabhie Gham, una commedia romantica musicale nel tipico stile dei masala movie (per sapere cosa sono i masala movie, cliccate qui). […]
[…] Svizzera – anche il nostro Paese si sta svegliando. Da tempo, su MilleOrienti, parliamo della internazionalizzazione dell’industria cinematografica indiana e del suo legame con il cineturi…, cioè delle varie opportunità di business offerte dalle produzioni di Bollywood: quando un […]
[…] vallées profitent de l’invasion pacifique de touristes indiens (MilleOrienti en a parlé, voir ICI). Le marché du ciné-tourisme indien est donc lucratif et en pleine croissance. Mais comment […]
[…] a peaceful invasion of Indian tourists for precisely this reason (MilleOrienti also mentioned this HERE). Indian film tourism is a profitable market that is growing […]
[…] Il cinema indiano, la globalizzazione e l'Italia | MilleOrienti […]
Concordo con tutto quello che Scrive Marco Rastelli (che spero prima o poi di incontrare). Mi occupo di Bollywood cinema da qualche anno ed ho terminato il mio dottorato di ricerca in Inghilterra su questo argomento. (La tesi e’ consultabile on-line …credo presso la University of Manchester).
L’Italia ancora fa fatica a scindere l’India da Bollywood, e il piu’ delle volte quello che l’italiano guarda in telvisione e’ una sintesi di cio’ che e’ “gia’ stato” ovvero quello che gia’ conosciamo di un’India esotica.
Credo (so che molti miei colleghi concordano, in questo sono forse un po anglosassone) Bollywood non e’ esotica, e’ tutto quello che viene costruito attorno a questo meravigliosa industria a rendere esotico e malinconico il nostro modo Italiano di rapportarci con questa industria.
Era solo un piccolo intervento…ma credo profondamente che l’Italia abbia ancora tanto bisogno di muoversi al di fuori dei propri bordi culturali incrociando tradizioni ‘altre’ con rispetto. Questo non e’ avvenuto e le varie ‘lacerazioni’ alla sintassi dei diversi film di Bollywood trasmessi dalla Rai lo dimostra. C’e’ sempre una certa ‘saccenza’ nel modo in cui ci rapportiamo a questa industria…forse dovremmo guardare di piu’ ai nostri vicini europei…Germania, Austria, Est Europa ….per non parlare dell’Inghilterra.
Grazie ancora Marco per questo articolo, che stampero’ e terro’ fra il mio materiale di ricerca…e spero, come detto, di incrociare presto le nostre strade professionali.
Spero anch’io di conoscerti, Monia. Scrivimi se vuoi, la mia mail personale è nella pagina “chi sono”. A presto,
Marco
[…] Zinta che riceverà il premio Kinéo Diamanti al Cinema. Ho scoperto, grazie a un interessantissimo articolo sul cinema indiano di Bollywood apparso su Limes nel 2009, che proprio la Mostra ospitò nel 1936 il primo film indiano in un […]
Complimenti per l’articolo, completo e interessante.
Oggi ho preso in considerazione l’idea di andare a lavorare presso qualche società di produzione cinematografica indiana. Sarebbe una gran bella esperienza che sarei ben lieto d’affrontare. Purtroppo non ho ancora pensato a come cercare eventuali offerte di lavoro a Bollywood. Lei avrebbe qualche idea su come cominciare la mia ricerca?
La ringrazio,
Andrea
[…] Zinta che riceverà il premio Kinéo Diamanti al Cinema. Ho scoperto, grazie a un interessantissimo articolo sul cinema indiano di Bollywood apparso su Limes nel 2009, che proprio la Mostra ospitò nel 1936 il primo film indiano in un […]
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