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E dopo le Olimpiadi? Il futuro della sfida nucleare fra Nord Corea e il mondo

19 Gennaio 2018 di - 43 views

In vista delle Olimpiadi invernali in Corea del Sud (9-25 febbraio 2018) le due Coree si scambiano cortesie e fanno squadra. Ma sbaglia chi si illude: passate le Olimpiadi la minaccia nucleare della Corea del Nord tornerà ad imporsi. Da dove viene questa minaccia, chi l’ha consentita, con quali futuri sviluppi? Ecco la mia analisi pubblicata poco tempo fa dal settimanale L’Espresso con il titolo “Se vince Kim”.

Chi ha permesso al Piccolo Kim di giocare con una fionda nucleare? Salito al potere nel 2011 a soli 27 anni, Kim Jong-un è il più giovane Capo di Stato del mondo e il 28 novembre 2017 ha fatto l’upgrade alla sua fionda. Che ora ha tredicimila kilometri di gittata e lanciando il missile Hwasong 15 può colpire il territorio degli Stati Uniti d’America. Ma anche l’Europa. Ovviamente questa inedita capacità offensiva costituisce un giro di boa, un punto di non-ritorno nelle relazioni fra la Corea del Nord e il mondo.


A fronte di ciò, l’Occidente ha collezionato una serie di figure penose. Donald Trump è già il quarto presidente americano ad avere solennemente promesso «bloccherò il programma nucleare nordcoreano». Ma prima di lui avevano fatto la stessa vana promessa Bill Clinton, George W. Bush e Barack Obama, tutti alternando sanzioni economiche, minacce più o meno esplicite, pressioni sulla Cina e trattative multilaterali. Risultato? A partire dal 1984 i “tre Kim” succedutisi al potere hanno realizzato una continua escalation militare: 16 lanci di missili nucleari durante il regno del Grande Leader Kim Il-sung, 47 lanci di missili durante il regno del figlio, il Caro Leader Kim Jong-il, e ben 92 lanci effettuati dal nipote, il Supremo Leader Kim Jong-un, nel breve lasso di tempo dal 2011 al 2017. Così, ora il Piccolo Kim può tenere l’intero pianeta col fiato sospeso.

La situazione attuale ha origine nel contesto della disastrosa politica asiatica perseguita dai servizi segreti americani fra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 del secolo scorso. Alcuni errori di questa politica sono ben noti, come quello di fornire ai mujaheddin afghani armi pesanti in chiave antisovietica, senza considerare la possibilità che poi quelle armi venissero rivolte contro l’Occidente; ma altri errori, altrettanto gravi, sono assai meno noti. Per esempio il fatto che i servizi americani permisero a una nazione alleata (ma con catene di comando instabili e inaffidabili), cioè il Pakistan, di vendere tecnologia nucleare e segreti militari a numerosi soggetti. Si scatenò un vero festival del contrabbando il cui protagonista fu per lungo tempo Abdul Qadeer Khan: il padre stesso della bomba atomica pakistana, lo scienziato che collaborava con la Cia ma che al contempo riforniva di tecnologie pericolose vari “stati canaglia” nemici degli Usa. Fra cui la Corea del Nord. Fu così che, grazie all’aiuto pakistano e agli occhi chiusi degli americani, il Grande Leader Kim Il-sung potè iniziare nel 1984 il lancio di missili. L’attività di Khan fu poi ammessa e denunciata ufficialmente, nel 2005, dal presidente pakistano Musharraf. Troppo tardi.


Dopo avere ottenuto ciò che le serviva sul mercato nero globale, oggi la monarchia post-comunista di Pyongyang mostra di avere imparato bene le regole del gioco
e si pone nel ruolo del venditore. Più volte nel corso del 2017 ha cercato di recapitare armi chimiche (fortunatamente intercettate) a quel che resta del regime siriano di Bashar Assad, e nel settembre 2017 un rapporto Onu segnalava «cittadini nordcoreani in Siria intenti a sviluppare traffici di tecnologie missilistiche…con il rischio che alcune armi di distruzione finiscano nelle mani di gruppi terroristici». Un legame di collaborazione, quello fra Pyongyang e Damasco, consolidato da molti anni e che portò alla realizzazione dell’impianto nucleare siriano di al-Kibar (“clonato” da una centrale nordcoreana) che venne poi distrutto nel 2007 da un blitz dell’aviazione israeliana. Dopo il blitz, in Siria furono ritrovati i cadaveri di parecchi tecnici nordcoreani.
Ma nell’ultimo decennio i rovesci sono stati molti meno dei successi, per la Corea del Nord. E oggi il regime ha dettato alla Tv di Stato un annuncio, tanto sibillino a orecchie occidentali quanto in realtà denso di significati: «il Juche 107 sarà l’anno in cui festeggeremo il 70° anniversario della fondazione dello Stato e in cui il mondo riconoscerà il trionfo definitivo del glorioso popolo nordcoreano».

Questo breve passaggio tv richiede, per rivelare le sue implicazioni, una traduzione culturale. Anzitutto si sta parlando del 2018, ma Pyongyang segue un calendario – politico – diverso dal nostro. La Repubblica Popolare Democratica di Corea fu fondata ufficialmente nel 1948, per cui il 2018 vedrà fastose celebrazioni dei 70 anni dello Stato; ma la parte significante dell’annuncio televisivo sta nelle due parole “trionfo definitivo”. Esse alludono infatti al completamento del programma nucleare conseguito con il missile intercontinentale lanciato il 28 novembre 2017. Il perfezionamento dell’arsenale nucleare diventerà così, nel 2018, il vessillo della vittoria del regime nordcoreano di fronte alle “falsità e minacce” del mondo occidentale. La miglior prova dell’ efficacia del regime. Che nel 2018 potrà celebrare se stesso in barba alle mille accuse di violenza e totalitarismo provenienti dall’Occidente; basti pensare che l’edizione 2017 dell’Indice Mondiale della Libertà di Stampa, curato da Reporter Senza Frontiere, attribuisce alla Nord Corea l’ultimo posto in classifica, cioè il 180° su 180 Paesi considerati.

Ma queste accuse non arrivano ai coreani; e al Piccolo Kim è sufficiente controllare la Tv di Stato. Torniamo perciò a quell’annuncio televisivo: l’altra parola-chiave su cui porre l’attenzione è “Juche”. Che significa «nell’anno Juche 107?». L’ideologia di Stato fa coincidere l’anno 1 della Nuova Era con l’ anno di nascita del Grande Leader Kim Il-sung, il 1912: il 2018 dunque sarà il 107° anno della Juche. La parola si può tradurre con “autosufficienza” e identifica l’ideologia ufficiale illustrata nel 1955 da Kim Il-sung in un discorso con questo accattivante titolo: «Eliminazione del dogmatismo e del formalismo e costituzione della Juche nel lavoro ideologico». Si trattava di un mix di marxismo-leninismo, autarchia economica ed esasperato nazionalismo, un mix in cui, col tempo, alcuni elementi hanno perso importanza – il comunismo in particolare, sparito dall’ edizione 2009 della Costituzione nordcoreana – mentre altri elementi sono diventati più centrali.


Al primo posto oggi c’è un nazionalismo intrecciato a un culto della personalità dei “tre Kim”, culto che sconfina apertamente nella mistica.
I tre Kim vengono infatti ufficialmenti chiamati (in barba alle origini comuniste dello Stato) “Dinastia del Monte Paektu”, un vulcano attivo che la mitologia coreana venera come montagna sacra abitata da esseri semi-divini, Figli del Cielo, fondatori del primo Regno di Corea in epoche antichissime. Ebbene, l’idologia ufficiale della Corea del Nord, la Juche, associa in vario modo i tre Kim a questa montagna sacra, ricca di poteri magici e personaggi mitologici, e attribuisce solo alla “linea di sangue del Monte Paektu”, cioè ai discendenti di Kim Il-sung, il diritto e la capacità infallibile, “per sangue”, di guidare il popolo nordcoreano.

Così, fra culto mistico del Capo e parate di missili nucleari, il regime fra un mese comincerà a festeggiare i successi della Juche in campo politico, militare e anche economico. Lasciate alle spalle, infatti, le spaventose carestie alimentari del passato, Pyongyang si è trasformata nella scintillante e ingannevole vetrina del regime: grattacieli, automobili e smartphone in città, relativa arretratezza nelle campagne, ma ovunque disciplina ferrea e nessuna pietà per i dissidenti. E oggi la Corea del Nord sorprende anche per la sua performance economica. I numeri – come tutto il resto nel Paese – sono coperti dal segreto, ma secondo la Banca Centrale di Seul il PIL della tetra Corea del Nord nel 2016 è cresciuto del 3.9%, mentre quello della libera Corea del Sud soltanto del 2.8%.


Agli attoniti occidentali resta da tirare alcune conclusioni
.

1) Il tramonto della “teoria del pazzo”, così cara a Donald Trump che aveva variamente definito “uomo-razzo” e “cane bagnato” Kim Jong-un, il quale si è rivelato invece un politico abile (basti pensare a come ha saputo mantenere i rapporti con la Cina pur senza piegarsi alle sue richieste) e nient’affatto irrazionale.

2) Il tramonto della teoria del “first strike”. Giunti a questo punto una azione militare americana contro la Corea del Nord è impensabile, perché la capacità di risposta di Pyongyang sarebbe di tale scala da provocare un immenso bagno di sangue. Come ha dichiarato il generale Jan-Marc Jouas, ex comandante delle truppe americane nell’area, «contro la Corea del Nord si potrebbe perdere».

3) Alla domanda “Cosa spera di ottenere la Corea del Nord dotandosi di armi nucleari e minacciando il mondo?” bisogna darsi la risposta che sin dall’inizio appariva come la più logica. Lo fa per autoconservazione. Per preservarsi, insomma. I monarchi post-comunisti della Dinastia del Monte Paektu non vogliono che il loro Paese faccia la fine della Germania Est – assorbita senza sparare un colpo dalla Germania capitalista. E tantomeno vogliono, per se stessi, la fine che fece Muammar Gheddafi. Nel 2003 il leader libico, ascoltando promesse e lusinghe di George Bush, accettò di rinunciare al suo arsenale di armi nucleari e chimiche. Ma le promesse americane non furono mantenute e otto anni dopo gli Usa e la Nato fecero la loro parte nell’abbattere il leader libico lasciandolo uccidere da una banda di ribelli. Quasi nessuno, allora, fece caso al commento ufficiale della Corea del Nord: «La caduta di Gheddafi costituisce una grave lezione per chiunque pensi di poter rinunciare alla propria capacità di difesa». Era il 2011 e il Piccolo Kim aveva appena preso il potere nella Corea del Nord.

Quand’era un ragazzino e studiava in Svizzera sotto falso nome, il Piccolo Kim si sentiva un pacifista e un poeta. Scrisse fra l’altro una poesia intitolata “Il mio mondo ideale” in cui sognava di bandire le guerre, le armi nucleari, e di combattere il terrorismo insieme al suo eroe dell’epoca: l’attore americano Jean-Claude Van Damme, esperto di arti marziali. Poi il Piccolo Kim divenne il Supremo Leader. E chissà se oggi, nelle ovattate stanze del potere di Pyongyang, gli arrivano gli echi dello strazio dei contadini che hanno figli deformi con malattie orribili perché vivono nelle aree dove il regime compie i suoi esperimenti nucleari.

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